Cristiana Zorzi
Simbiosi. Si tratta di un’«associazione intima, spesso obbligata» tra viventi, ha che fare con i «tipi di relazione» e avviene attraverso una serie di possibili «modalità», che ne implicano il vantaggio o lo svantaggio. Insomma, il concetto porta con sé una certa «responsabilità». Il termine deriva dal greco συμβίωσις «convivenza», complemento di σύν «con, insieme» e βιόω «vivere» (derivato di βίος «vita»). Il senso figurativo è quello di «stretta unità, intima associazione, coesistenza e compenetrazione di fatti e elementi diversi» (Vocabolario e Enciclopedia Treccani Online). In breve, indica delle modalità, dei modi di con-vivere.
Se prendiamo in mano il libro, seguendone la sinossi, la simbiosi è il punto di arrivo della riflessione che ci propone Gilles Clément. In realtà, credo, quello che Clément dice, non solo conclude nella simbiosi, ma si sviluppa attorno a questo con che precede e accompagna il vivere.
Non a caso, il primo geografo citato in questo testo, alla trentatreesima riga di questo libricino, non è nessun altro che Berque (cfr. Écumène. Introduction à l’étude des milieux humains, 1987 – traduzione italiana a cura di Maggioli M., 2019). Che viene chiamato in causa per parlare di questa «messa a distanza» della natura, che in sé corrisponde proprio alla creazione di tale termine (p. 8). Si parla di ecologia in relazione a ciò che viene definito «legame nell’istante» (p.8), e già nella sua prima pagina, questo saggio, si avvicina alle temporalità, facendosi spazio in quel dibattito sulla necessaria ricongiunzione dello spazio al tempo (cfr. Gwiazdzinski L. et al., Chronotopies : Lecture et écriture des mondes en mouvement, 2017).
In questo Giardino Planetario il tempo è una costante imminente, dalla quale non ci possiamo astrarre: ce lo sbatte in faccia la nozione di «finezza ecologica» (p. 9), in altre parole: se tutto non avesse tempo, niente avrebbe fine. Ecco da dove deriva quella responsabilità, comunemente detta in quanto concetto e comunemente condivisa in quando pratica necessaria, potremo dunque forse, piuttosto, dire, in quanto opinione.
Il fatto, a cui – a mio parere – questo saggio ci pone d’innanzi, è che difficilmente capiremo come “praticare la responsabilità” in contesti nei quali ci proiettiamo, ma non viviamo.
Tutto si fa in nome di qualche concetto, ce lo spiega bene l’autore; a capo di ogni qualcuno di questi possibili concetti vi è il concetto supremo, quello che definisce lo stream of consciousness – e lo scrivo in inglese solo per marcare questa iper-omogeneizzazione del mondo (alla quale sta facendo costante riferimento Jean Marc Besse nel contesto del ciclo di seminari Retour sur Terre? Paysage et géographie, attualmente in corso di svolgimento) – della Post-modernità: lo sviluppo sostenibile (p. 12).
Ma quando, le pratiche, sono, invece, in nome della terra/Terra? Quando le cose si fanno in seno a quel camminare coi piedi per terra, quando il camminabile diventa il possibile? E il non-camminabile – ripensando a Berque – il limite, e contemporaneamente l’apertura, al possibile? (cfr. Maldinay H., De la transpassibilitè, 1991).
Di fatto, questo è un libro che parla di pratiche, lo fa in relazione alla crisi (pp. 58-61). Le pratiche possiedono uno spazio e un tempo. E sono inalienabili da essi. Qualsiasi pratica avrà delle ricadute spazio-temporali. Ora, quello che cerca di dirci l’autore, e ce lo dice bene attraverso, soprattutto, quelle sei tavole, sei disegni che si posizionano tra quella che è una proposta – l’Alternativa ambiente – con annessa modalità di fare – abbandono del progetto cartesiano e resistenza – e quella che è la conclusione – la necessaria simbiosi –, è il bisogno di camminabilità delle pratiche.
Camminare significa, anzitutto, immaginare – lasciar andare l’immaginazione –, poi anche desiderare – definire delle progettualità –, infine, fare – realizzare. Ma soprattutto, consiste nell’entrare in relazione attraverso i sensi, dunque il nostro corpo, con quello che ci circonda. Significa sentire e riconoscere le connessioni (p. 48).
Significa applicare la simbiosi all’interdipendenza (p. 65), e per farlo, bisogna conoscere (p. 66). «Ogni creatura svolge il proprio divenire in seno a un ecosistema, ogni ecosistema è legato al sistema vicino, e a questo pianeta» (p. 22). È una definizione semplice, e pure praticabile, se si pensa con il corpo.
«Camminare è vivere lo spazio di tempo, tenendo in filigrana tutto lo spazio e tutto il tempo» (Meschiari M., Geoanarchia. Appunti di una resistenza ecologica, 2017, p. 127). Camminare è il farsi del luogo, è il farsi luogo.
Con tutte le implicazioni e le responsabilità di tale operazione, che però, per lo meno, è concreta – nel senso Berquiano: è un con-crescere, crescere insieme, che cammina sulla linea del con-vivere. Si tratta di pratiche paesaggistiche, che hanno più a che fare con farsi/ci, che con l’essere – invece, hanno molto a che fare con l’esser-ci. Si tratta di assumere l’intimità. Quel «sentimento di un intimo legame tra vicino e lontano» e che l’autore identifica come soluzione per «raggiungere le coscienze» e «tessere, all’insaputa di tutti i governi, una rete di appartenenza planetaria» (p. 27), quella che deriva dal sentire e riconoscere. Si tratta di praticare l’immersione nel contesto, l’ambiente (p. 33), e tessere relazioni, i paesaggi. Che possiedono un’intimità, che sta dentro anche se è fuori: nel senso che si sviluppano traiettivamente, attraverso delle prese (cfr. Berque, 1987), da fuori verso il dentro, da dentro verso il fuori, intimamente.
Intimità, come qualcosa che ci è interiore. Che significa portare dentro, ma anche stare dentro: sentire un paesaggio, essere un paesaggio. Accettare l’interiorità e l’interiorizzazione delle cose, che è una pratica in divenire, che si costruisce in relazione a ciò che è fuori, esteriore, e che desideriamo portare dentro: portare, del camminare, e non avere, del possedere.
E alla fine – scusatemi se lo faccio notare, ma ci sono cresciuta in mezzo, e forse ne sono ossessionata – si parla sempre e comunque di alberi. Per Clément sono la metafora migliore. Per me, sono qualcosa di intimo.
I Treefisters sono un gruppo di artisti che operano in territorio Dolomitico, occupandosi di decodificare il territorio. Clicca qui er scoprire i loro progetti
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