Cristiana Zorzi
Tra il dandy (il giardino alla francese) e il poeta (il giardino all’inglese) ci sta il punk.
Punk. Eccentrico. Provocatorio.
Movimento. Disilluso. Anti-ipocrita. Sentimentalista.
Nel senso che si costruisce sviluppando quel «sentimento anarchico» di cui ci parla bene Kropotkin (Anarchistische Moral, 1897) e che muove verso la ricerca del diritto alla libertà di pratica.

Si tratta sempre di scelte.
Ed essere liberi di farne, implica anche un certo grado di responsabilità.
Sfruttiamo il territorio senza conoscere bene quello in cui stiamo in mezzo (p. 11): c’è bisogno di integrità.
Il tempo è quello del XXI secolo e della presa di coscienza ecologica globale, con tutti suoi obiettivi, grandi e illusori, a volte ipocriti, troppo razionali per essere interiorizzatili: privi di sentimento.
Ma quello che deve interessare realmente, è contribuire al miglioramento di una notevole biodiversità (p. 21).
«La volontà deve essere quella di sviluppare delle strategie molto più ecologiche di quelle che ci hanno insegnato, per portare uno sguardo nuovo su questo spazio di vita, che è il giardino».
È il momento di lasciare la presa.
Di lasciare la natura riprendersi un po’ dei suoi diritti: «è il momento di prendere un bel respiro di libertà e, avendo fiducia in questo, di (ri)diventare punk» (p. 15).
Dunque, come trasformare il giardino in quanto rappresentazione di una natura idealizzata in spazio di pratiche di paesaggio? Da ornamento, rappresentazione estetica a pratica estetica ed estetizzante (delle geografie emotive, percepite, intime e condivise, non delle rappresentazioni di tali). Come svincolare il giardino dai vincoli sistematici a cui è costretto?
Come essere giardinieri punk?
Come praticare questa fase di «riconciliazione con la natura» che stiamo attraversando?
L’unica maniera per abitare il mondo selvatico, è quella di assumere con un cosciente realismo le possibili minacce. Perché è solamente «al prezzo del realismo che la transizione ecologica sarà possibile» (p. 21).
Liberarsi dall’imperativo dello sguardo per avvicinarsi a quello della pratica del guardare. Che a differenza di stabilire punti di osservazione e vedute, definisce spazi di presenza e pratiche.
Les délaissés. Spazi trascurati e abbandonati – quelli da Clément definiti Terzo Paesaggio (Manifesto del Terzo Paesaggio, 2004) e da Meschiarei Quarto Spazio (Geoanarchia. Appunti di una resistenza ecologica, 2017) – sono gli spazi dell’integrazione. Perché il giardino è un concreto vettore di integrazione sociale (pp. 22-23).
Sono spazi poco giudiziosi, e ancor meno pretenziosi.
Non ostentano, ma praticano. Non giudicano, ma integrano. Non mutano, ma assorbono, convivono.
Nel giardino punk, l’anarchia tient le lieu della legge, lasciando che alberi e fiori ci possano vivere in libertà, sbrigandosela tra di loro, a eccezione dell’erba, che spunta comunque ovunque tra una cosa e l’altra (p. 7) senza scrupoli, ne questioni particolari: cresce in mezzo.
Un giardino punk, dunque, in definitiva, è: per nulla caro da realizzare; facile da realizzare; rapido da realizzare; facile da mantenere e autonomo, nella misura del possibile; per nulla caro da mantenere; resistente alle aggressioni; per nulla nocivo; ecologicamente interessante; più bello che l’esistente (p. 27).
Per farlo bisogna porsi a metà tra il selvatico naturale e un ordine culturale, ispirandosi – ci dice l’autore – alla «maniera di abitare con cui i punk abitano nella società, senza volerne seguire le regole».
Il punk, è libertino: sopravvive.
Cogliere, insomma, quell’«avventura sempre singolare» che è il giardino (p. 28), ma che non è mai singolare: è pur sempre collettiva.
Accogliere il mutamento, come essenza del giardino. Perché «la migliore intenzione di un mondo resta comunque quella inscritta nel suo tempo». Il giardino punk «non è infatti definitivo, per quanto sia durevole/sostenibile» (pp. 32-34).
Praticare il giardino punk è esattamente quel fare con il paesaggio a cui ci educa Besse (La nécessité du paysage, 2018). Sul piano delle percezioni, degli usi, degli affetti. Sul piano delle pratiche e dell’azione.
Trasgredire per protegger(ci), per mantenere la nostra essenza mutevole e dinamica, il nostro essere paesaggio, ed esserlo nel divenire.
La parola d’ordine? Osare.
E non soli, ma approfittando del sistema, facendosi degli alleati, rendendo il giardino punk un luogo non di immagini rappresentate nella realtà, ma di avvenimenti in divenire realmente.
Farne un luogo profondamente vivente (p. 41).
Non porre limiti evidenti, integrare i limiti al giardino (p. 60). Assumendoli.
Questo, è un libro che cerca di capire il fare di un agréable vivre (p.12).
All’inizio dello scritto, l’autore si chiede: «cos’è che non ha funzionato nel rapporto tra umanità e paesaggio?».
Le scale. Poiché, non le sappiamo/possiamo praticare e le vogliamo governare. Invece, «uno dei vantaggi del bambino è di sapersi affrancare dai vicoli di scala, di essere capace di creare la più grande avventura dentro ad un fazzoletto da taschino» (p. 13).
Un giardino punk, è un posto che esiste concretamente.
Abbastanza piccolo da farci stare dentro, senza farci sentire dispersi.
Abbastanza profondo, da non farci venire voglia di andarcene fuori, perché ci manca la libertà.
In immagini https://www.youtube.com/watch?v=XucI–MJNnY , Artwork by Treefisters
I Treefisters sono un gruppo di artisti che operano in territorio Dolomitico, occupandosi di decodificare il territorio. Per scoprire i loro progetti http://treefisting.blogspot.com/p/contrast.htm .
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