«Vanno soli, con lentezza, senza nessun altro scopo se non quello d’avanzare» (p.15).
Che il nomadismo sia la migliore risposta allo sfuggire del tempo? (p.18)
Del resto, «il camminare a piedi oppone allo scorrere del tempo, la misura dello spazio» (p. 19).
«Che cosa fare?» quando il mio corpo mi martella sino all’ossessione con il mantra dell’angoscia – «che cosa fare?» – io gli rispondo: «partire!» (p.27)
Il viaggio è quella superficie offerta al pensiero per divagare in libertà (p. 31) per quelle «Geografie della desolazione» (p. 32), che l’attraversarle significa dare spazio al sogno, all’immaginazione.
Si tratta di quei mondi costruiti da «Geografie prodotte dall’immaginario» (p. 48).
Il vagabondo, il nomade, quello che non sente l’eco dei suoi dolori, e per questo non ricerca il benessere (p. 63), che non appartiene a nessun gruppo e non possiede nessuna rivendicazione (p. 54), viaggia non per «scegliere un ordine, ma per fare ordine dentro se stesso» (p. 65).
Per lui, o lei, «non esiste che un solo ritmo: lento, regolare, un inalterabile ritmo nomadico» (p. 72).
Quell’ordine delle cose (sulla superficie terrestre) che si voleva comprendere inventando la Geografia. Ecco l’impresa geografica di disegnarne il ritratto. «Ma, per disegnare la terra, bisogna passeggiarla/scoprirla/attraversarla/eccetera[1], necessità che fa dei geografi i primi viaggiatori» (p. 77).
La prima lezione che impartisce la Geografia è quella «dei limiti che si vedono» (p. 78). Nel riconoscere l’immensità del mondo, fatto di limiti, quello che fa un geografo o una geografa, è il viaggio. Cammina per conoscere (p. 78). Nel senso che il viaggio è la pratica che rende un geografo, o una geografa, tale.
Il/la nomade, o vagabondo/a, o geografo/a, ad ogni passo coglie le emozioni, si meraviglia delle novità, ma non cerca di trovare le corrispondenze tra ciò che scopre e ciò che sperava di trovare (p. 85). E si guarda bene dalla nostalgia, per non disturbare il presente con il passato (p. 85). Intravede l’immensità di un mondo che non teme l’orizzonte come confine, ma che lo accoglie come zona liminare.
E cerca «quegli incontri con la bellezza delle foreste, il sospiro delle paludi con il volo degli insetti e la spuma delle onde dei mari. E questi incontri qui, sono offerti alla solitudine, fedele amante del viaggiatore alla quale dovrebbe essere dato il nome di Felicità» (p. 98).
Muovendosi in quelle Geografie apparentemente «ostili» (p. 98), che sanno essere anche le mura di una città (p. 104), che si ripetono in un mondo dove le forze viventi giocano le loro parti senza il bisogno che degl’occhi le guardino, si apprende «a restare soli, per vivere più densamente». Per «essere perpetuamente in uno stato di poesia» (p. 99).
Si tratta, comunque, sempre, di pratiche (p. 107).
E se cattedrali maestose, fatte di pietre senza consistenza, manifestano un vuoto di essenza (p. 114), ci si muove tra i paesaggi che contengono in potenza la compressione immaginaria di secoli di cambiamenti (bouleversements). «La Geografia è allora quella chiave che permette di intravedere il tessuto del tempo reale» (p. 80): per conoscere più di quello che si vede.
Per fermasi e costruirci un bivacco, che dev’essere: bello e utile.
I posti migliori? Balconi naturali che cadono sul vuoto (p. 139) e si aprono all’immenso.
Per arrivare ad una Geografia del vuoto.
Ad un viaggio orizzontale e non verticale (p. 124).
Per praticare, invece di rivendicare. Per camminare, invece di stare.
Su/tra gl’alberi? (Per camminare alberi?)
Alla fine, ammette l’autore, «tutti i nostri malesseri derivano dall’aver abbandonato i nostri alberi. È salutare – afferma – ritornarci almeno di tanto in tanto. Per ritrovare le nostre radici, bisogna risalire sui rami» (p. 147)
«La foresta ci tende i suoi alberi! Perché non possiamo cambiare il mondo e nemmeno non provare a farlo».
In pratica, il meglio che si possa fare, sarebbe dunque tentare di fruire il mondo il più esteticamente possibile.
Le comunità degli alberi (o del legno) – ci dice lo scrittore/geografo/viaggiatore – si riuniscono attorno ad una causa comune, e attorno ad un fuoco (di legna), qualche amico convinto, si organizza in società (pp. 152-153).
E se è la bellezza eterna, la grande bellezza, a salvare il mondo (p. 154), bisogna che si ricominci a sentire (fare/praticare/camminare?).
Che sia, forse, di un ritorno alla foresta, ciò di cui abbiamo bisogno?
[1] Il termine francese qui utilizzato per dire come approcciarsi alla descrizione della terra è «l’arpenter», così vago e digressivo che non me la sentivo di spingermi in una scelta stilistica, tendenziosamente oggettiva, e meno aperta, dunque, ecco il perché della traduzione “indecisa”.
PETIT TRAITÉ SUR L’IMMENSITÉ DU MONDE, di Sylvan Tesson
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