Cristiana Zorzi
Ah, il paesaggio!
Così avvolgente, ci circonda – il nous entoure.
O ancora in maniera più suggestiva il nous environne.
Eppure, non pare sufficiente ed esaustivo, questo posto che si dà a stare al paesaggio: quello di star(ci) attorno.

Il paesaggio è anche in noi – ce lo dice all’esordio l’autore (p. 5) – e «non come un semplice pensiero, un ricordo, o un’immagine mentale, ma come un’impressione, una sensazione a volte potente e diffusa».
Il paesaggio come «dimensione costituiva della nostra esistenza», quel milieu che ci riguarda nell’essere lo spazio sensibile del nostro agire, quello in cui si costituisce la condizione emotiva del nostro essere umani sulla Terra (Berque, 1996). Quella qualità relazionale necessaria che diviene nello spazio-tempo della nostra esistenza.
Desideri e aspirazioni prendono forma attraverso i paesaggi, modellati e stratificati dalla relazione che intratteniamo con la Terra/terra. Attraverso essi leggiamo le pratiche, interpretiamo l’abitare, che si fanno attraverso la relazione dinamica con lo spazio che produce il territorio.
Se intendiamo la Geografia come disciplina di sintesi, il paesaggio ne è volto (p. 7): la mostra e la racconta.
«Spazio delle metamorfosi» (p. 11) il paesaggio è, per natura, composito – fatto di una serie di elementi in iterazione continua tra loro – e autopoietico – quel suo essere così suggestivo e perciò un poco indescrivibile che genera la necessità di produrne innumerevoli definizioni, forse deriva dal suo essere poetico: del suo farsi attraverso la poiesis, del suo crearsi da nulla.
Prende forma attraverso «l’autoproduzione di senso» (p. 13) e traduce una «volontà di abitare» (p. 18).
Il paesaggio coinvolge il nostro corpo nella sua totalità (p. 28), la sua percezione esige la messa in azione di tutti i nostri sensi (del resto, il paesaggio non ci sta davanti a mo’ di cartolina, ci sta tutt’attorno) nel produrre atmosfera (p. 31), nel trasformarsi in uno spazio emozionale o “tonale” (p. 29), nel tessere quel sentimento di appartenenza che ci lega emotivamente alla Terra/terra.
Se il paesaggio è spazio-tempo – in esso si sprigiona un’energia (p. 27) e si produce una tensione (p. 63) – di azione, lo è come spazio-tempo con cui agire (altro dall’agire sul paesaggio è l’agire con il paesaggio) (p. 38).
Si tratta di assumere una postura inter-relazionale, dello stare – e fare – nel paesaggio invece che davanti al paesaggio. E dunque pensare e fare il paesaggio non in quanto risultato, ma in quanto processo.
Il paesaggio è «un cantiere che rivela la potenza dei savoir-faire, nella loro dimensione di sperimentazione creatrice (p. 69). Un cantiere nel quale per starci bisogna essere educati a starci. Ecco: educare al paesaggio diventa una conseguenza naturale dell’assumere la necessità che abbiamo del paesaggio (p. 71) per agire consapevolmente, sviluppare la capacità di porre attenzione, alle cose e alle pratiche (p. 99): prenderci in carico quella responsabilità ontologica di abitare la Terra (Turco, 2016).
«Il paesaggio, è abitare il mondo ed essere abitati dal mondo» (p. 50).
E se ci capita di pensare di attraversare il paesaggio – il paesaggio che è spazio vivente (p. 109) – forse, invece, quella sensazione del sublime, che tanto è stata attribuita al paesaggio, deriva dal fatto che, in realtà, questo muoverci attraverso lo spazio, la «pratica del camminare come investigazione del reale» (p. 103), permette al paesaggio di penetrarci. Del resto, ce lo dice Besse: il paesaggio ci attraversa (p. 29).
LA NÉCESSITÉ DU PAYSAGE, di Jean-Marc Besse, Edition Parentèses
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