Cristiana Zorzi
Quando ero piccola immaginavo.

Immaginavo che i posti che camminavo si estendessero oltre la mia capacità di camminare.
Detto in altre parole: immaginavo di poter arrivare dove il mio corpo non poteva.
E così diventavo Altro, Altro che poteva arrivare Altrove.
E l’Altro e l’Altrove diventava me, che ero ormai Altro e Altrove.
Quando ero piccola, praticavo la grammatica dell’immaginario: mi capitava di «pensare corpi come paesaggi, e paesaggi come corpi, il tempo come materia, lo spazio come energia, il buio come animale, la carne come parola» (p. 56). E immaginavo possibili che poi intentavo nei reali.
Immaginavo e facevo qualcosa, costruivo similmente all’immaginario, progettavo, agivo.
Del resto «l’animismo è un ‘come se’, una narrazione totale dove tutti sono persone e dove ‘credere’ è meno importante di ‘raccontare’» (p. 46).
Facevo «procedere la storia» (p. 47), soggetto co-autrice, personaggio immaginario che era Altro e Altrove, e Altro e Altrove era qui, ero io.
Immaginavo e mi comportavo, e immaginare comportava qualcosa.
Se come ci dice l’autore di questo libro «quasi sempre si parla di geografia come una tecnica utile, uno strumento pratico finalizzato a risolvere i problemi di spazio che accompagnano la nostra specie. Quasi mai se ne parla come espansione dell’esercizio dell’immaginario. In realtà la geografia è proprio questo: l’arte di immaginare luoghi, non solo per migrare, tornarsene a casa o anticipare il nemico, ma per essere trasportati in qualche modo sull’Isola-che-non-c’è» (p. 52).
E se ancora, sempre come ci dice lo stesso, «immaginare la terra significa fare resistenza» (p. 22).
Allora, geografia è resistenza.
Del resto: «dove finisce il viaggio dei piedi non finisce quello della mente» e allora la mappa diventa spazializzazione visuale di mondi interiori e invisibili: «inventare geografie è solo un altro modo per esplorare questo mondo, ma da fuori, da lontano, così a farne emergere aspetti e articolazioni che altrimenti non vedremmo».
Ecco allora la soluzione che ci propone l’autore: «ricominciare a fare esercizi di geografia fantastica perché, come nei sogni profondi, è li che restano impigliate le verità che non sappiamo dire a noi stessi. È li che si nascondono animali invisibili» (p. 53).
E in un mondo immaginato, dove la relazione terra-corpo diventa soggetto, personaggio (terracorpo), di iper, ci servono solo gli animali. Gli iperanimali. Quelli che resistono: perché si muovono.
E allora va messa in atto questa facoltà di astrazione dell’uomo. Per tornare ad immaginare animali.
Che si spostano. Vanno via (p. 43).
E apprendere.
E se il collasso – imminente, ma di un’imminenza infinita (nel senso di una fine cronica, spalmata su un tempo illimitato, o su un non-tempo (p. 38): una fine infinita, un deserto verticale (p. 39), e nel cui contesto sperimentiamo l’incapacità di agire insieme (forse perché non sappiamo più immaginare insieme?)) – è il pericolo, forse, quello che ci manca è la capacità di immaginare ulteriori mondi possibili.
Ci manca un po’ di competenza in quell’esercizio utopico che passando per il sensibile fa il possibile.
Utopie per immaginare «paesaggi mentali che rendono possibile, probabile e infine realizzabile, qualcosa che in origine era considerato completamente fuori portata» (p. 10).
Insomma, immaginare serve.
(cfr pp. 12-13 per un’elenco di tutte le utilità della pratica di immaginare, ma anche altri passaggi nel testo potrebbero essere particolarmente incisivi in tal senso, indico ad esempio pp. 22-23, dove si parla dell’immaginazione “strumento raffinato”, o p. 34 dove si tratta l’immaginazione come modello, eccetera).
E se «serve avviare un discorso sul ruolo della fiction e dell’immaginario nel costruire pratiche concrete di resistenza collettiva al disastro» (p. 14) alcuni nomi di geografi e geografe che potrebbe essere il caso di leggere, sarei incline aderire, ce li avrei in mente…
Così: immaginare/raccontare la terra è una chiave concreta e ineludibile per salvarci (p. 14), in altre parole, si potrebbe in sintesi dire: la geo-grafia è la chiave per salvarci (tutti, ma proprio tutti)?
La scrittura. La vocazione narrativa della nostra specie.
Policromia prospettica. Restaurare la complessità multiforme del tempo.
Dice l’autore: «ci serve una cosmopoiesi» (p. 63): «un’attitudine cosmografica» (p. 64).
L’immaginazione come collante cognitivo, l’utopia come pratica (che si materializzino delle utopie concrete?)
È davvero solo fiction? (p.35) Insomma, bisogna fare come facevamo – tutti – da piccoli: «bisogna credere che il racconto sia reale, e annullare le barriere tra narrazione e vita. FICTION IS ACITION. Ecco l’utopia» (p. 66).
«Pensare i paesaggi terrestri serve a riportare la terra nel pensiero» (p. 22).
Modellare paesaggi, farsi modellare nei paesaggi per pensare i paesaggi che viviamo (p. 20).
Costruire storie.
E se non si sa comedovequando cominciare, allora, cominciamo immaginando.
Camminando alberi.
LA GRANDE ESTINZIONE. Immaginare ai tempi del collasso, di Matteo Meschiari
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