di Daniele Pasqualetti
Tra i pittoreschi rioni della città eterna – che non smette mai di stupire i viaggiatori che si avventurano nei suoi meandri – un quartiere si contraddistingue per la sua effervescente vita culturale e per le sue interessantissime, eccentriche e forse inconciliabili geografie: Testaccio.
Testaccio è crocevia degli opposti; nel tempo ha mostrato facce e sfaccettature diverse seguendo un perenne processo di trasformazione che ha sfiorato, non di rado, il paradosso. Così oggi questo rione si ritrova ad essere all’unisono centro e periferia, antico e moderno così come “tempio” della tradizione – culinaria su tutte – e hub di tendenze alla moda e di processi di gentrificazione.
Di certo, per un territorio così complesso una bella “passeggiata” non può che iniziare da una contestualizzazione storico-geografica. E come sempre sarà bene cominciare dal principio, ovvero dall’Antica Roma.
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Testaccio fu uno degli ultimi rioni ad essere istituito a Roma, insieme al vicino San Saba e al cosiddetto Prati di Castello – che perse poi nel linguaggio quotidiano il riferimento a Castel sant’Angelo per rimanere conosciuto semplicemente come Prati. Per tutta l’epoca medievale, moderna e buona parte di quella contemporanea Testaccio è sempre stato affiancato ad altri rioni dalla più robusta struttura, poiché era sempre rimasto poco abitato e si presentava per lo più come una grande distesa di campi e di prati adibiti al pubblico pascolo. Un luogo di passaggio per i pellegrini diretti verso la basilica di San Paolo fuori le mura. Solo nel 1921 il quartiere si è guadagnato una propria dignità rionale, venendo per l’appunto a costituire il XX rione di Roma.
Non sorprende dunque che la prima menzione di “Testacio”, contenuta in una incisione marmorea all’interno di Santa Maria in Cosmedin (risalente all’VIII secolo), utilizzi il toponimo proprio in riferimento ad alcune vigne lì presenti.
Come nota Irene Ranaldi (2014, p. 111): “Forse Testaccio è uno degli ultimi, e ancora per poco, quartieri romani dove il genius loci può ancora avere senso”. Se si ripercorre la storia del territorio si possono trovare aneddoti e coincidenze del tutto singolari: come il fatto che il Mattatoio sia sorto alle pendici del Monte dei Cocci, proprio accanto al luogo dove nel corso del Medioevo avvenivano le tauromachie, ovvero dei giochi terminanti solitamente con il sacrificio rituale del bue (di cui si discuterà più avanti), lo stesso animale che qualche secolo più tardi entrerà al macello per essere “sacrificato” sulle tavole dei romani; per non parlare della leggendaria presenza dell’asylum nel tempio di Diana sull’Aventino non lontano dal centro Ararat oggi abitato da tanti curdi richiedenti asilo; oppure il richiamo tra l’Emporium e le fabbriche del XX secolo, tra la destinazione di porto e magazzino commerciale e il suo recente corrispettivo industriale di officine, Magazzini Generali e, ovviamente, del Mattatoio.
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Durante la fase di espansione commerciale e marittima della Roma antica, proprio a ridosso della battaglia di Zama del 202 a.C. che porterà alla vittoria della seconda Guerra punica, si decise di costruire nel territorio dell’odierno Testaccio lo scalo portuale urbano, per accogliere le merci delle provincie destinate a sfamare la capitale. Nel 193 a.C. gli edili Emilio Paolo e Marco Emilio Lepido decisero la costruzione dell’Emporium, poi nel 174 a.C. venne ampliato e lastricato da Q. Fulvio Flacco e A. Postumio Albino, come racconta Tito Livio nel suo Ab Urbe condita (XXV,10; XLI,27).
Nel momento di massima espansione, tra il I e il III secolo d.C., un’enorme quantità di merci proveniente da tutto il Mediterraneo arrivava nei magazzini (horrea) di Testaccio risalendo il Tevere. Il gigantesco complesso degli Horrea galbana era uno di quei sistemi di magazzini dove lavoravano giorno e notte centinaia di servi impiegati come magazzinieri (horreairi), operai (vilici) o mensores, affiancati da rivenditori privati, spesso liberti, che trattavano le merci più disparate (Di Giacomo, 2009).
Sono ancora riconoscibili tre strutture a testimonianza fisica, spaziale e simbolica di questa identità geografica proveniente dal passato di Testaccio, quando questo era un luogo centrale per la sopravvivenza del popolo romano che veniva sfamato proprio con le provviste raccolte negli horrea (Rodriguez, 2018) e distribuite dall’amministrazione pubblica grazie alle risorse dell’Annona (rendita dello Stato).
La prima struttura è il criptoportico prospicente l’area del porto, ancora visibile dalle sponde del Tevere ma raramente aperto alle visite.
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La seconda è la Porticus Aemilia, segno tangibile delle attività connesse all’antico Emporium per la sua posizione nel mezzo dei lotti popolari sulla via Rubattino. Le sue origini sono state materia di acceso dibattito tra gli archeologi, tanto che uno dei protagonisti della contesa, Pier Luigi Tucci, ha intitolato un suo articolo “La controversa storia della Porticus Aemilia” (Tucci 2012). Il nocciolo del problema riguardava l’identificazione dell’edificio, se si trattasse dei Navalia (ovvero di una sorta di armeria navale) come sosteneva l’archeologo Tucci a partire da una reinterpretazione del frammento 24b della Forma Urbis, oppure se si trattasse della Porticus Aemilia come era stata tradizionalmente individuata da Guglielmo Gatti negli anni Trenta, inquadrandola all’interno del sistema commerciale dell’Emporium[1]. Con gli scavi ultimati nel 2013, giunge una comunicazione della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma intitolata “La Porticus Aemilia regala un giardino a Testaccio”[2], che almeno in parte mette un argine al dibattito rendendo pubblica la notizia del “ritrovamento di resti carbonizzati di chicchi di farro” all’interno dell’edificio: viene così avallata la tesi delle funzioni commerciali connesse all’Emporium.
Il terzo luogo connesso all’antico porto romano è un vero e proprio simbolo di Testaccio, un’iconema dell’immaginario legato a questo quartiere: il Monte dei Cocci. Sebbene oggi sia ammirato come monumento storico e come inestimabile bene comune di respiro cittadino ma anche internazionale; sebbene venga sfruttato per attrarre i turisti più curiosi in visita alla “città eterna”, in origine il monte non era altro che una gigantesca discarica a cielo aperto. Nell’Antica Roma esisteva un complesso sistema di smaltimento dei rifiuti, in particolare di quelli ceramici che, ad esempio, venivano reimpiegati per produrre un tipo di malta particolarmente resistente e leggera (adatta per la costruzione di arcate) oppure, come si può osservare negli scavi al di sotto del nuovo Mercato di Testaccio, venivano utilizzati direttamente come materiale da costruzione per comporre muri e pareti. Nonostante fossero diffuse forme di riciclo e riutilizzo avanzate, se confrontate ai moderni modelli di sostenibilità, di zero-waste e di chiusura del ciclo dei rifiuti, alcune materie di scarto dovevano essere buttate e fra queste vi erano le anfore olearie che, a differenza di altri residui ceramici, erano deperibili e soggette a decomposizione non potendo essere ripulite del tutto dai resti organici di olio (Rodriguez-Almeida, 1975, p. 225). Era dunque necessario individuare dei punti di raccolta, ovvero dei luoghi da adibire a discarica, poiché una serie di leggi[3] di tutela dell’interesse e della salute pubblica, che oggi potremmo definire come di stampo ambientalista, impedivano di disperdere i cocci direttamente nell’ambiente fluviale.
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In questo modo tra il 140 a.C. e la prima metà del III secolo d.C. venne a formarsi progressivamente un monte costituito dai cocci delle anfore dell’Emporium alto ben 36 metri (Ranaldi, 2012, p. 13). Queste anfore olearie provenivano in grandissima maggioranza – si stima intorno all’80-90% – dall’Andalusia e la quasi totalità del restante dal Nord Africa e sono quindi una testimonianza della centralità che queste due province venivano assumendo nell’impero, quantomeno per l’approvvigionamento alimentare. Non bisogna dimenticare che proprio durante lo stesso periodo fosse diventato imperatore un uomo di origine spagnola, Traiano (98 d.C.).
Durante il Medioevo il Monte dei Cocci e i prati alle sue pendici divengono il luogo eletto per la celebrazione di una festa rituale: il Carnevale. Gli antichi Saturnalia romani avevano in parte influenzato la celebrazione del Carnevale medioevale, conferendo alla festa un carattere popolare e ludico. Il primo documento, scritto da Benedetto Canonico, a menzionare il Ludo Carnevalari di Testaccio risale al 1140-3, ma testimonianze più antiche ne attestano la festa già dall’ VIII secolo (Betti in Lucignani 2009). Gli Statuti cittadini del 1363 codificano la festa rituale carnevalesca all’interno di un corpus di legge e qui troviamo menzione di uno dei momenti cruciali della festa: la domenica sul Monte Testaccio, quando sei carretti contenenti ciascuno “duo iuvenci et duo porci” (Re, 1880, p. 241) venivano lanciati dal Monte e fatti diventare vittime sacrificali dei giocatori nell’agone. Sicuramente doveva essere un momento molto concitato: urla, schiamazzi e balordi animavano il quartiere, che per alcuni giorni veniva completamente stravolto. La gente si accalcava lungo le strade fino alle pendici del Monte dei Cocci per incitare i prodi giocatori. Ma, al contrario di quanto si potrebbe pensare, a faticare nell’arena erano i cavalieri, una classe abbastanza agiata da potersi permettere armature e cavalcature, mentre la plebaglia si godeva lo spettacolo e i piaceri del vino.
Il popolo si riversava nelle strade del quartiere in cerca di spensieratezza e goliardia. Era un’occasione per dimenticare la dura vita di tutti i giorni e celebrare un nuovo inizio.
Sei carretti contenenti ciascuno due porci e due giovani tori venivano condotti sulla cima del Monte dei Cocci. Quindi di colpo i carretti venivano lanciati giù per il pendio fino alle pendici del monte, sconquassandosi giù nell’arena dove li aspettavano i lusores (giocatori). Le fiere, ora libere e spaventate, scappavano via, mentre i cavalieri le inseguivano.
Il pubblico incitava i giocatori del proprio rione esultando ogni qual volta uno di loro riusciva ad acchiappare un animale che dal canto loro correvano di qua e di là in preda al panico facendo impazzire i propri inseguitori. Ogni qual volta un maiale sfuggiva al prode guerriero che lo rincorreva, la folla scoppiava in una fragorosa risata, beffandosi e schernendo il malcapitato.
Era la parodia di un campo di battaglia, un divertente e dissacrante gioco con funzioni propiziatorie che per una volta, in occasione della festa, permetteva di ribaltare, invertire e rovesciare l’ordine stabilito della città.
Fonti:
ARATA Francesco Paolo, FELICI Enrico, Porticus Aemilia, navalia o horrea? Ancora sui frammenti 23 e 24 b-d della Forma Urbis, in “Archeologia classica”, «L’Erma» di Bretschneider, Roma, 2011 (Vol. LXII), pp. 127-153.
BETTI Fabio, Le feste di Testaccio in età medievale e moderna, in Lucignani Roberto (a cura di) Testaccio. Dove batte più forte “er core” dei romani, Gangemi editore, Roma, 2009, pp. 224-235.
D’ALESSIO Alessandro, L’edificio in opus incertum del Testaccio a Roma. Status quaestionis e prospettive di ricerca, in “Atlante tematico di Topografia antica Roma, città romane, assetto del territorio”, «L’Erma» di Bretschneider, Roma, 2014, pp. 7-23.
DI GIACOMO Giovanna, Attività e mestieri a Testaccio nel mondo antico, in Lucignani Roberto (a cura di) Testaccio. Dove batte più forte “er core” dei romani, Gangemi editore, Roma, 2009, pp.206-211.
LIVIO Tito, Ab Urbe condita libri, XXV, 10; XLI, 27. https://la.wikisource.org/wiki/Ab_Urbe_Condita.
PASQUALETTI Daniele, La storia di Testaccio: dalla preistoria ai giorni nostri, Typimedia editore, Roma, 2020.
RANALDI Irene, Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, Aracne editrice, Roma, 2014.
RANALDI Irene, Testaccio. Da quartiere operaio a Village della capitale, Franco Angeli, Milano, 2012.
RE Camillo, Statuti della città di Roma, Accademia di conferenze storico-giuridiche, Roma, 1880.
RODRIGUEZ ALMEIDA Emilio, Bolli anforari di Monte Testaccio, in “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, 1975 (Vol. LXXXIV), «L’Erma» di Bretschneider, pp. 199-248.
RODRIGUEZ Jemsal, I provvedimenti annonari: la Baetica, l’olio per Roma e il Monte Testaccio, in D’Alessio Alessandro, Panella Clementina, Rea Rossella (a cura di), L’impero e la dinastia venuta dall’Africa, Milano, Mondadori Electa, Roma Universalis, 2018, pp. 232-241.
TUCCI Pierluigi, La controversa storia della Porticus Aemilia, in “Archeologia classica”, 2012 (Vol. LXIII), pp. 575-591.
https://www.archiviofotografico.societageografica.it/index.php?it/152/archivio-fotografie/sgi_master_dbase_8563/23879
[1] sulla disputa si veda Tucci (2012), Arata e Felici (2011), D’Alessio (2014).
[2] https://www.beniculturali.it/comunicato/soprintendenza-speciale-per-i-beni-archeologici-di-roma-la-porticus-aemilia-regala-un-giardino-a-testaccio
[3] Riferimento classico è quello della legge de fluminibus et de rivis proclamata per regolare e tutelare l’uso del patrimonio idrografico; sull’argomento si veda Monaco (2012) in Teoria e storia del diritto privato.