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La selva di Parco Chigi in Ariccia

Martino Haver Longo

L’esperienza del viaggio ha spinto nei secoli l’essere umano ad interrogarsi sul significato dello spazio e dell’ambiente in relazione al tempo in cui si trovava a vivere. Negli ultimi decenni la crescente attenzione rivolta agli effetti della crisi climatica ha spinto molti a mettere in discussione il proprio rapporto con la natura e a interrogarsi sul significato del naturale.

Parco Chigi in Ariccia. Fonte: immagini ESRI, 2021

In tale contesto, nella Rubrica “I Viaggi senza scarpe” vorrei portarvi a conoscere un luogo ameno, una selva “artificiale” che da secoli affascina i viaggiatori che in essa si imbattono. Faremo tappa presso i Castelli Romani a Parco Chigi in Ariccia che rappresenta un unicum rispetto alle altre aree protette della zona essendo la porzione superstite più estesa del Nemus Aricinum l’originale vegetazione che ricopriva i Colli Albani non ibridata da flora allogena, né da vegetazione volta alla soddisfazione di particolari esigenze economiche. In questo bosco vive ed opera una flora che si riproduce da secoli senza continuative interferenze antropiche preservando uno stato di selvatichezza che, grazie alla folta copertura boschiva, simula in alcuni tratti ambienti primigeni. Questa unicità interroga il viaggiatore portando ad una riflessione sul senso del naturale e ad una critica sulla netta distinzione fra sistema urbano e aree verdi favorendo l’interesse per la storia di tali sistemi ambientali, significando questi luoghi con un rinnovato valore paesistico, culturale, economico.

Ora ricostruiremo il contesto storico e geografico di Parco Chigi per comprendere come sia stato possibile preservare questi ambienti primigeni lungo il corso dei secoli.

Parco Chigi è un bosco di circa 28 ettari di proprietà del comune di Ariccia posto nel territorio dei Castelli Romani (fig. 1), denominazione che indica l’insieme di cittadine situate alle pendici o all’interno dell’area vulcanica dei Colli Albani (Migliorini et al., 1973). Il bosco, incuneato tra i comuni di Ariccia, Albano e Castel Gandolfo, si estende con un’altitudine variabile tra i 357 e i 450 metri e si trova a nord-est del viadotto monumentale realizzato lungo la via Appia per volere di papa Pio IX .

Il bosco è caratterizzato da un denso soprassuolo misto di latifoglie di origine naturale dominato da piante legnose perenni che determinano una copertura del suolo pressoché continua.  In quest’area sopravvivono le specie vegetali più antiche dell’area dei Castelli Romani, capaci di resistere alla massiccia penetrazione ed espansione del castagno, largamente introdotto nel resto delle aree boschive dei Colli Albani verso la fine del XVI secolo (Regione Lazio, 2006). Le principali fitocenosi presenti sono il bosco sempreverde di leccio, nel quale è prevalente il leccio ed il bosco misto di latifoglie decidue, con una varietà di specie, tra cui il cerro, il carpino bianco, il carpino nero e il bagolaro (Petrucci e Bassani, 1992). Insetti, fitofagi e microrganismi di varia natura interagiscono liberamente con la vegetazione mantenendo costantemente viva la reciprocità fra specie di diverse classi di organismi; atto questo particolarmente funzionale alla conservazione della biodiversità e fondamentale per garantire la stabilità dell’ecosistema del bosco. Inoltre, trattandosi di un bosco dove l’opera umana è stata minima, si possono riconoscere e studiare alcuni interessanti stadi di catene alimentari complesse che vedono come protagonisti proprio organismi decompositori, quali funghi, batteri, acari e insetti che occupano specifiche nicchie ecologiche (Ibidem). Anche il suolo presenta notevole importanza dal punto di vista mineralogico, essendo stati scoperti alcuni minerali di interesse come la latiumite (Fattori, Mancinella, 2007) [1] Inoltre, Parco Chigi è rilevante per funzioni idrogeologiche e igienico-sanitarie, data l’elevata capacità della vegetazione boschiva sia di prevenzione nei confronti di fenomeni erosivi causati da vari agenti meteorici che di filtraggio naturale per le polveri e le particelle tossiche presenti nell’area del centro urbano (Ibidem).

Tracciare una storia complessiva di Parco Chigi è impresa ardua soprattutto per la mancanza di una completa e continuativa documentazione storica e di analisi scientifiche complesse che possano coprire le millenarie interrelazioni fra l’uomo e questa porzione di selva. Anche per questo, al di là di un tentativo di ricerca archeologica forestale compiuta da Enrico Rovelli (1999), non è stata fin ora tracciata una storia biologico-ambientale del bosco. Certamente, però, si può dimostrare come l’attuale selvatichezza sia il prodotto di specifiche scelte messe in atto da diversi attori politici e sociali che, nei secoli, con differenti attribuzioni di significato, hanno sottratto l’area a massicce pratiche di antropizzazione.  In epoca romana il bosco, conosciuto come Nemus Aricinum, era strettamente legato alla divinizzazione di antica tradizione pagana che ne faceva un tempio sacro alla dea Diana (Petrucci e Bassani, 1992)[2]; rappresentava un insieme inviolabile del quale era proibito l’accesso. Nel Medioevo, nonostante la minore pressione demografica, una porzione dell’area venne destinata ad uso agricolo e ciò è ancora visibile nelle opere di terrazzamento e nella ricchezza di azoto del suolo (Mengarelli, 2019). Tuttavia, l’elevata accidentalità del terreno ha garantito il mantenimento di una larga copertura forestale nell’area (Rovelli, 1999)[3]. A partire dal Cinquecento, è stata l’azione dei feudatari che si sono susseguiti nel possesso a determinare un recupero totale dell’area boschiva ristabilendo progressivamente la costituzione del folto ecosistema forestale osservabile tutt’oggi (Ibidem)[4]. In primo luogo, fu la famiglia dei Savelli (che nel 1473 permutò con il cardinale Giuliano Della Rovere il feudo di Ariccia) a delimitare una parte dell’area dedicandola alla funzione di barco secondo l’idea tardorinascimentale di “bosco delizia per la caccia”, ossia una selva contenuta entro circoscritti limiti ed inaccessibile se non a pratiche venatorie (Petrucci, 2018). Dal 1661 fu la famiglia Chigi, nuova proprietaria del feudo, a continuare l’allargamento mediante l’innalzamento della cinta muraria e l’estensione del perimetro che raggiunse un’area complessiva di 28 ettari. Analizzando la progressione dell’opera di recinzione (Petrucci e Bassani, 1992)[5] si può osservare come l’apice di questo processo sia giunto tra il XVII e il XVIII secolo (Petrucci, 2018)[6]. In questo lungo periodo, di particolare rilevanza fu, nel 1666, la chiusura della strada che attraversava il bosco e separava palazzo e parco. Al suo posto, su progetto del Bernini incaricato da Alessandro VII Chigi della sistemazione urbanistica della città (Marconi, 1998), venne costruita la cosiddetta strada nuova. La costruzione di questo asse viario legò indissolubilmente il parco al palazzo creando una continuità diretta fra di essi.

Ai Chigi si deve inoltre la realizzazione di fontane e di altri manufatti come la neviera realizzata sfruttando alcune cavità naturali. Inoltre, alla fine dell’Ottocento, la nobile famiglia destinò a giardino un breve tratto del parco ai piedi del palazzo sul versante orientale. Tale giardino fu adornato da alcuni reperti archeologici dell’Aricia romana e da piante esotiche come la camelia e la sequoia. In definitiva quindi, se dagli studi naturalistici e biologici si può riscontrare una continuità del parco con la selva originaria (Petrucci e Bassani, 1992), le attestazioni storiche dimostrano come essa sia un prodotto legato strettamente all’attività antropica. Come testimonianza simbolica di questa interdipendenza può essere citata l’ordinanza di uno dei principi Chigi, Sigismondo (1736-1793), che vietando in maniera categorica la recessione per gli alberi interni al parco affermava: «quelli che cadevano per la vecchiaia o per l’impeto de’ venti, non fossero trasportati altrove» (Ibidem)[7]. In virtù di ciò, prendendo ad esempio la categorizzazione di paesaggio dello studioso francese Gilles Clément, Parco Chigi può essere definito in qualità di luogo non sfruttato per decisione amministrativa come riserva, uno degli spazi che compongono il “Terzo paesaggio”, tra cui rientrano appunto quelle aree in cui l’assenza dell’attività umana ha generato un rifugio per la conservazione della diversità biologica (Clément, 2016). La selvatichezza di Parco Chigi rappresenta un importante patrimonio proprio in virtù del suo status conservativo in cui si preservano specie che si riproducono dinamicamente senza interferenze.

Fico e Scala, foto scattata dall’autore 2021

 Progressivamente impossibilitati ad uno sfruttamento agricolo o selvicolturale dell’area, dal XV secolo in poi, gli ariccini e le popolazioni circostanti hanno rivolto le loro attenzioni alle zone boschive concesse, prima dai Savelli e poi dai Chigi, per usi civici ed hanno ignorato lo spazio ricadente entro gli attuali confini del parco. Inoltre, l’area verde − anche a motivo della sua graduale inaccessibilità − si era nuovamente ammantata di un’aura di sacralità, reminiscenza del tempo pagano, una significazione territoriale che le due nobili famiglie susseguitesi avevano contribuito ad alimentare appropriandosi della memoria mitologica impressa nel luogo e attribuendole una nuova veste simbolica per dare maggior valore ai possedimenti della propria casata (Mignosi, 1984). Tuttavia, specialmente a partire dal XIX secolo, il rapporto fra popolazione e parco è iniziato a mutare sostanzialmente. L’aspetto residuale di sacralità è scemato con la decadenza dell’influenza della famiglia Chigi e l’importanza attribuita da essi al feudo ariccino, conseguenza anche di una decisa contrazione del capitale economico da poter destinare alla cura ordinaria e straordinaria dei numerosi beni (Girelli, 1983).  Inoltre, seppur il XIX secolo abbia registrato una crescita demografica della popolazione dei Castelli Romani (Sirilli ,2020)[8], questa non ha portato ad una maggior pressione sull’area del parco in virtù di una minore necessità economica dei beni producibili dallo sfruttamento del bosco. Infatti, solo durante e negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, il parco è stato soggetto ad attività antropiche che hanno visto l’utilizzo del suolo e lo sfruttamento delle sue risorse boschive: prima, dal 1943 al 1945, quando parte dell’area venne occupata da accampamenti sia tedeschi che statunitensi e soprattutto poi, dal 2 giugno 1944, a causa del crollo del ponte monumentale quando il parco venne aperto al transito dei civili.

A seguito della parentesi bellica, a partire dagli anni ’50, per il parco e per gli altri beni chigiani iniziò una lunga fase di decadimento conclusasi con la scelta del dott. Agostino Chigi di alienare i beni mobili ed immobili della famiglia al comune di Ariccia. L’erede dei Chigi prese questa decisione anche con l’idea di restituire il bosco alla comunità castellana per la creazione di un museo storico-artistico-naturalistico. Il passaggio di proprietà fu sottoscritto il 29 dicembre 1988 per l’importo di 7.000.000.000 di Lire (Petrucci e Bassani, 1992). Il parco si andava a ricongiungere al patrimonio architettonico e paesaggistico della città, complemento fondamentale del centro storico. A partire dal 1990 l’area, inserita nel sistema del Parco regionale dei Castelli Romani, venne vincolata in qualità di riserva, anche se, per un adeguamento formale secondo le normative nazionali l.394/91 e la relativa traduzione legislativa regionale (l. r. 29/97), si dovette aspettare il primo decennio del XXI secolo. Il Parco venne invece riconosciuto tra le aree di particolare pregio naturalistico da tutelare al fine di conservarne le peculiarità storiche e ambientali. Per questa tipologia di aree, l’Ente Parco regionale è impegnato a mantenere lo stato delle utilizzazioni tradizionali, limitando le trasformazioni urbanistiche alle categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili presenti al suo interno e alla realizzazione di infrastrutture strettamente necessarie[9].

L’inserimento del parco entro un preciso quadro legislativo ha garantito una tutela normativa per la sua conservazione segnando una sorta di continuità storica con il principio di inviolabilità dell’area. A cambiare invece in modo paradigmatico è il rapporto fra la comunità castellana e il parco. Le mura, che avevano determinato una separazione fisica tra la popolazione e il bosco, per la prima volta dopo secoli sono state idealmente abbattute. Il parco si è aperto ed è divenuto bene pubblico da ri-territorializzare in quanto tale, slegato da una proprietà di relazione univoca con la famiglia feudataria assoluta detentrice del potere d’accesso e aperto alle sfide dell’incontro con la comunità ariccina vivente da sempre ai suoi margini.  Di fatto, attingendo ancora una volta al manifesto del “Terzo paesaggio”, attualmente, il mantenimento dell’esistenza di Parco Chigi, in quanto riserva ospitante un ecosistema naturalistico non replicabile, non dipende solo da esperti e da norme, ma in primo luogo da una coscienza collettiva in grado di significare come bene comune il territorio e di custodirne l’integrità (Clément, 2016).  Un principio di assunzione di responsabilità collettiva che risponde però a quesiti sulla funzionalità dello spazio, ossia se il parco sia effettivamente portatore di un progetto e di uno sviluppo che renda partecipe la stessa comunità ariccina. In sintesi, una pianificazione che porti alla valorizzazione della preservazione degli aspetti di dinamicità biologica della selva, che elevando l’improduttività e immobilità dell’area a valore politico arricchisca il territorio ariccino, possibile modello alternativo all’imperante ricerca di sfruttamento produttivo dello spazio. Si può affermare perciò che il parco, dal 1988, rappresenti sia un monumento naturale da preservare che un modello di ibridazione tra il Nemus Aricinum e l’umano nella contemporaneità (Corsini, 2017).


Bibliografia

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CLÉMENT, Gilles, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2016.

CORSINI, Daniela, SPAZIO PUBBLICO. Grammatica, poetica e opportunità d’uso, Melfi, Libria, 2017, Passim.

FATTORI, Cristiano, MANCINELLA, Dario (a cura di), Banca Dati dei Geositi del Lazio, Roma, Arplazio, 2007.

GIRELLI, Anna Maria, Le terre dei Chigi ad Ariccia (secolo XIX), Milano, Giuffré, 1983.

MARCONI, Beatrice (a cura di), L’ Ariccia del Bernini: Palazzo Chigi in Ariccia, 10 ottobre-31 dicembre 1998, Roma, De Luca, 1998.

MENGARELLI, Cristiano, Formazione e crescita del sistema insediativo dei Castelli romani e Prenestini nel medioevo: uno sguardo tra storia, archeologia e storia dell’arte, Palestrina, Edizioni Articolo Nove, 2019, passim.

MIGLIORINI, Elio, CARDI, Luigi, COLAMONICO, Carmelo (a cura di), Memoria illustrativa della carta della utilizzazione del suolo del Lazio (fogli 12, 13, 14, 15 E 16 della carta dell’utilizzazione Del Suolo D’Italia), Roma, Consiglio Nazionale Delle Ricerche (CNR), 1973.

MIGNOSI TANTILLO, Almamaria, Boschi sacri e barchi nei paesi feudali del Lazio, in LEFEVRE, Renato (a cura di), Ville e parchi nel Lazio, Roma, Gruppo culturale di Roma e del Lazio, 1984, pp. 10-33.

PETRUCCI, Francesco, DI FELICE, Franco, Immagini di Ariccia XVII – XX secolo, Ariccia, Arti grafiche, 1984.

PETRUCCI, Francesco, BASSANI, Paolo, Il Parco Chigi in Ariccia, Rocca di Papa, Casa editrice del Parco, 1992.

PETRUCCI, Francesco, Il Palazzo Ducale di Ariccia: la fase Savelli, in Gazzetta ambiente: GA: Rivista sull’ambiente e il territorio, n.3, 2018, pp. 7-56.

ROVELLI, Enrico, Aspetti naturalistici, in VAROLI PIAZZA, Sofia (a cura di), Parco e Palazzo Chigi: restauro e valorizzazione, Roma, De Luca, 1999, pp. 28-39.

SIRILLI, Giorgio, I Castelli romani attraverso la statistica in Petrucci, Francesco, Castelli romani: vicende, uomini, folclore, Anno LX, 2, 2020, Ariccia, Arti Grafiche, pp. 36-43.

VAROLI, Sofia(a cura di), Piazza Parco e Palazzo Chigi: restauro e valorizzazione, Roma, De Luca, 1999.


Normative

L.R. 13 gennaio 1984, n. 2 (B.U.R. 21/04/1984, n. 11 S.O. n. 3); L.R. 28/09/1984, n. 64 (B.U.R. 25/10/1984, n. 29); L.R. 24/06/1990, n. 63 (B.U.R. 9/06/1990, n. 16).

Piano del Parco dei Castelli Romani – Adeguamento alla L.R. 29/97 – norme tecniche di attuazione. Deliberazione del Consiglio Direttivo del Parco dei Castelli romani, 21/05/2009, n. 23.

Deliberazione della giunta comunale del Comune di Ariccia Seduta in data: 01/06/2017 atto n. 108.


[1]La latiumite e altri minerali rari quali l’harkerite, la malanite, la kaliophilite o la wiluite sono stati ritrovati nelle xenoliti contenuti nel Peperino la cui cava all’interno dell’attuale area del parco era attiva fin dall’antichità e ormai da tempo dismessa. FATTORI, Cristiano, MANCINELLA, Dario (a cura di), Banca Dati dei Geositi del Lazio, Roma, Arplazio, 2007, p. 2.

[2] Erano presenti nell’area dei Castelli Romani, e in particolare nella zona di Vallericcia e Nemi, anche altri luoghi cultuali legati alla dea Diana, come testimoniano i classici, su tutti Strabone e Ovidio. Inoltre, le pratiche cultuali di quest’area sono citate dall’antropologo James Frazer nella sua opera the Golden Bough, come spunto per parlare di varie ritualità che erano presenti nell’antichità. Un rito incentrato sulla rigenerazione che trova similitudini anche nel mito fondativo della città di Ariccia.  PETRUCCI, Francesco, BASSANI, Paolo, Il Parco Chigi in Ariccia, Rocca di Papa, Casa editrice del Parco, 1992, pp. 8-21.

[3] ROVELLI, Enrico, Aspetti naturalistici in VAROLI PIAZZA, Sofia (a cura di), Parco e Palazzo Chigi: restauro e valorizzazione, Roma, De Luca, 1999, pp. 30-31.

[4]Probabilmente questo fenomeno di ripopolazione forestale venne accelerato dai Chigi mediante un rinfoltimento della vegetazione con piante originarie dei Colli Albani come il leccio. ROVELLI, Enrico, Aspetti naturalistici in VAROLI PIAZZA, Sofia (a cura di), Parco e Palazzo Chigi: restauro e valorizzazione, cit., p. 32.

[5] L’evoluzione delle fasi di ampliamento dell’area cintata si possono apprezzare dalla serie di otto chine acquerellate, eseguite nel 1911 da Ludovico Chigi (1864-1951), conservate nell’archivio storico dei Chigi nel Palazzo di Ariccia. Le tavole sono riprodotte nel volume Il Parco Chigi in Ariccia edito nel 1992. Tale volume, curato da F. Petrucci, rappresenta il più importante contributo recente sulla storia del parco e delle sue origini. PETRUCCI, Francesco, BASSANI, Paolo, Il Parco Chigi in Ariccia, cit., pp. 34- 40.

[6] I Savelli fondarono nel Cinquecento il nucleo originario del parco concepito come riserva di caccia. Durante la prima metà del Seicento vennero recintate un’uccelliera precedentemente costruita e la Vignola. Palazzo Savelli e il parco non furono mai contigui. PETRUCCI, Francesco, Il Palazzo Ducale di Ariccia: la fase Savelli, in Gazzetta ambiente: GA: Rivista sull’ambiente e il territorio, n.3, 2018, pp.7-56.

[7] Proprio per questo carattere di selvatichezza il parco suscitò grande interesse artistico e venne frequentato da numerosi pittori, come William Turner e Philip Hackert, e letterati, su tutti Goethe e Stendhal, a cui i prìncipi concedevano facilmente l’accesso e che fecero di Parco Chigi un tópos mitico della cultura romantica e preromantica. PETRUCCI, Francesco, BASSANI, Paolo, Il Parco Chigi in Ariccia, cit., pp. 27-30.

[8] L’incremento demografico dei Castelli è stato relativamente modesto dall’Unità d’Italia alla Seconda Guerra Mondiale; molto significativo dagli anni ‘50 fino agli anni ‘80, in particolare grazie al potenziamento della rete infrastrutturale. Mentre è poi rallentato nel periodo successivo. SIRILLI, Giorgio, I Castelli romani attraverso la statistica in Francesco Petrucci, Castelli romani: vicende, uomini, folklore. Anno LX, 2, 2020, Ariccia, Arti Grafiche, p. 38.

[9] Piano del Parco dei Castelli Romani – Adeguamento alla L.R. 29/97 – Norme Tecniche di Attuazione. Deliberazione del Consiglio Direttivo del Parco dei Castelli romani, 21/06/2009, n. 23.