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Attenzione, Danubio!

di Davide Chierichetti


“La libertà umana si afferma sopprimendo o riducendo la distanza” (E. Dardel, L’uomo e la terra, 1952)


Rivedendo l’ammaliante film di Béla Tarr, Kárhozat – Perdizione, (1987), decisi che era giunto il momento di visitare i luoghi dove era stato ambientato: la mitica pianura ungherese, l’Alföld o puszta, in accordo con una mia strana predilezione per i paesaggi pianeggianti e sconfinati, misteriosamente rassicuranti a mio modo di sentire. Dopodiché pensai di aggiungere una visita a Belgrado, città dove mi ero già recato e della quale avevo un buon ricordo, sostenuto da valide amicizie strette negli anni. Questo il progetto di evasione da un agosto pigro e solitario in cui mi appellavo ai miei (pochi e sconnessi) riferimenti. L’itinerario che avevo stabilito partiva dalla capitale ungherese, Budapest, e da lì proseguiva a sud, seguendo il corso del Danubio, facendo tappa a Novi Sad, nel nord della Serbia, terminando poi a Belgrado.

Non appena misi piede nella capitale magiara mi accorsi che c’era qualcosa che non andava: il caldo era orribile. Che errore di valutazione! Per sfuggire alle torride temperature romane di questi ultimi anni, quell’estate avevo creduto sufficiente attraversare l’Adriatico e le Alpi Dinariche: niente di più ingenuo. I primi passi tra le vie cittadine si fecero dunque pesanti e così, sopraggiunta anche l’ora di pranzo, cercai riparo fra i condizionatori del ristorante Frici Papa, che mi era stato segnalato come buon esempio di cucina ungherese, relativamente autentico. L’atmosfera sembrava sincera nonostante la presenza di numerosi turisti, così optai per un gulasch, accompagnato da un classico purè. Il piatto, decisamente poco estivo (lo ammetto), soddisfò il mio appetito ma aggravò il disagio e, forse, compromise il mio primo approccio alla città.

I giorni successivi feci lunghe camminate in centro e un aspetto fu sin da subito evidente: la quantità di turisti era decisamente eccessiva. Si aggiungeva così al caldo una difficoltà ulteriore che provocava code, ritardi e inconvenienti di vario genere che facevano apparire la città banale, comune; difficile carpirne la vera natura. Sembrava di aggirarsi in una “antica” smart city dove si poteva sfrecciare su dei monopattini elettrici fra i deliziosi viali ottocenteschi così che, fra una svolta e l’altra, fra un ristorante thailandese, uno greco, un Mc Donald’s e uno Starbucks, a pensarci bene, si poteva poi essere in qualunque altro posto d’Occidente. Fortunatamente, una mattina decisi di spingermi più in periferia, nel sud-est della città, più precisamente nel quartiere di Kispest. Qui il paesaggio urbano era di gran lunga differente: un quartiere residenziale fatto di case basse, provviste tutte di piccoli e graziosi giardini, né troppo curati né troppo incolti, quasi romantici, un luogo decisamente più veritiero e accogliente, molto silenzioso; dopo averlo attraversato quasi per intero, giunsi alla mia meta: il famoso mercato delle pulci di Ecseri.

Presi atto, con mio sommo dispiacere, che moltissimi banchi erano chiusi poiché era un giorno feriale, tuttavia l’atmosfera che si respirava girovagando fra questo incantevole mercato semi-coperto era quella auspicata. Le pochissime persone presenti e la luce che si faceva tenue attraversando le coperture trasparenti sopra la mia testa, rendevano il passaggio estremamente suggestivo, fra oggetti d’epoca, mobili, carte e vestiti d’inizio secolo XX. Una piccola oasi di pace ungherese.

Gli ultimi due giorni a Budapest trovai ristoro in un gradevole bar di epoca sovietica, situato sulla riva occidentale del Danubio, a Buda, chiamato Bambi Café, dove si serviva un’ottima pálinka. Da qui, riflettendo su tutti i modi possibili per trascorrere quest’ultimo periodo in città, pensai che magari un tuffo mi avrebbe giovato e mi incamminai così verso i bagni Széchenyi, il famosissimo complesso termale. Di terme, come è risaputo, ce ne sono qui in grande quantità ed io le avevo evitate fieramente fino all’ultimo minuto, immaginando il probabile bagno di folla al quale sarei andato incontro: tutto vero, coda all’ingresso inclusa. Perlomeno il complesso termale era davvero affascinante, risale al 1881, ed era curioso qui osservare quegli attempati ungheresi giocare a scacchi, a mollo, nell’acqua calda.

Arrivò il giorno di prendere il bus, direzione Novi Sad, finalmente. Il viaggio durò circa quattro ore: attraversai da nord a sud la già citata e malinconica puszta ungherese, passando per piccoli centri urbani come Kecskemét, dove inizialmente avevo in programma di fermarmi. Al confine con la Serbia fummo fatti scendere alla dogana e trattenuti oltre mezz’ora per il controllo documenti (è necessario il passaporto per l’ingresso nello stato balcanico). Giunsi così nel capoluogo della Voivodina, transitando tra l’altro per la ormai tristemente nota stazione dove si sarebbe verificato, nel novembre successivo, il tragico crollo della pensilina, evento che ha originato i movimenti di protesta serbi di questi giorni.

Il Danubio divenne a quel punto il vero protagonista: qui la gente sembrava avere un altro tipo di rapporto con il fiume, molto più intimo. Così misi il costume e mi ci avvicinai anche io, recandomi alla Strand, una nota e frequentatissima spiaggia della città, con tanto di lettini, ombrelloni, attrezzature sportive di ogni tipo, senza contare gli immancabili bar e ristoranti. Vi si accedeva da un grosso cancello dove si doveva pagare per l’ingresso (circa 50 centesimi) ed era decisamente ospitale, ma non feci il bagno: nonostante la grande quantità di persone in acqua, quel colore, tendente al marrone, mi mantenne cauto e ben saldo sulla riva.

Il giorno seguente mi spostai ancora verso sud e giunsi così a Belgrado, ultima tappa del mio itinerario. Quando arrivai alla stazione degli autobus, mi resi conto di una città che stava cambiando rispetto alla mia visita di qualche anno prima. Già in quella zona sorgeva adesso un nuovo quartiere, ancora in costruzione, fatto di palazzi vagamente lussuosi con più di trenta piani, proprio vicino al fiume e, poco più in là, un avveniristico grattacielo in vetro, dalle forme intrecciate, che cambiava irreparabilmente lo skyline belgradese; tutto poco attento, a mio avviso, al tessuto urbano preesistente, una cementificazione che apparve ai miei occhi decisamente forzata. Attraversando la città mi recai al mio alloggio nella zona di Novi Beograd, comune molto popoloso, costituito perlopiù da grandi caseggiati chiamati block ed edificati durante l’epoca di Tito, alcuni dei quali veri e propri compendi di architettura brutalista.

Rispetto al soggiorno ungherese la temperatura era leggermente più bassa e questo permetteva camminate più piacevoli. Il primo pasto in città non poteva che essere in una tradizionale kafana (taverna), dove consumai dell’ottimo ćevapčići (ne avrei consumati molti altri), il tipico e buonissimo piatto di carne che si può trovare nei territori dell’ex Jugoslavia.

A seguire mi diressi in un’area della città che non avevo visitato la prima volta: Zemun. Questa municipalità si sviluppa su delle colline situate sulla riva destra del Danubio presso la confluenza con la Sava, altro fiume della città, ed è un antico insediamento che mantiene ancora oggi l’aspetto datogli in epoca asburgica. Il mio passaggio fra le viuzze e le case basse di questo pittoresco sito fu reso ancor più suggestivo dal cielo che si stava facendo grigio, e dall’aria, che caricandosi di umidità, rendeva incerte le forme degli edifici in lontananza; sul fiume spuntavano dalla nebbia i profili di barche lunghe decine e decine di metri (gli splav), e il tutto era ammantato da uno strano silenzio, dato forse dall’assenza di turisti.

Dopo essere sopraggiunto nella Chiesa di san Nicola mentre si svolgeva una funzione, di rito ortodosso, continuai attraversando il vecchio cimitero salendo poi sulla Torre del Millennio, eretta nel 1896, dalla quale è possibile avere una splendida vista sulla città. Data la piacevolezza del posto, tornai a Zemun anche qualche giorno più tardi, fermandomi in una kafana lungo il fiume a mangiare del pesce d’acqua dolce, concedendomi un bicchiere di rakija a fine pasto, il gustoso distillato balcanico. Dedicai poi una mattinata intera ad un luogo decisamente piacevole da visitare, il museo della Jugoslavia, in una zona più residenziale; qui ero già stato qualche anno prima, ma vale sempre la pena tornare, se si è in città.

Incorniciato da una splendida area verde che gli conferisce un carattere sereno e allo stesso tempo solenne, questo museo mantiene intatta la memoria dei decenni di vita del Paese, quando le varie etnie, culture, religioni, convivevano pacificamente e in armonia.

Il percorso espositivo è molto affascinante e si snoda fra oggetti di vita comune, opere d’arte, cartografie e doni di moltissimi capi di Stato a Tito durante il suo governo culminando, in maniera anche un po’ emotiva, in un altro piccolo edificio, un memoriale chiamato “Casa dei fiori”, dove è sepolto lo statista yugoslavo.

A Belgrado, che è straordinaria antologia di cose moderne, termina così questo viaggio, iniziato nella poco decifrabile, per me, Budapest, ingorgo forse un po’ troppo turistico di antichità e tecnologia.  Molto significativo è stato compiere questo viaggio seguendo, idealmente e non solo, la mitica via d’acqua del Danubio, sorta di spiaggia libera dell’anima, dove l’umanità è più vicina e intrecciata, una natura viva e abitata all’interno della città, dove sentirsi meno “ospiti”, nel marasma dolce di spiagge scure, bagni e villeggiatura rilassata.

Belgrado, cartolina postale, fondo E. Migliorini
Zemun, Dunavska obala, cartolina postale, fondo E. Migliorini

Le foto, salvo diversa indicazione, sono di Davide Chierichetti


Riferimenti:

[Film]

  • Béla Tarr, Perdizione (Kárhozat), Ungheria, 1987
  • Béla Tarr, Satantango (Sátántangó), Ungheria, 1994
  • Goran Paskaljevic, La polveriera (Bure baruta), Serbia, 1998
  • Emir Kusturica, Ti ricordi di Dolly Bell? (Sjećaš li se Doli Bel?), Jugoslavia, 1981
  • Emir Kusturica, Underground, Jugoslavia, Germania, Francia, 1995
  • Mila Turajlic, Cinema Komunisto, Serbia, 2010

[Album musicale]

  • Fejat Sejdić, Prva Truba Dragačeva Serbia, 1982